meditate, gente, meditate

Era lo slogan pubblicitario di una birra.
Capisco che possa sembrare strano sentir parlare di dieci giorni di meditazione.
Che avrò da meditare per tanto tempo? NON LO SO. Ma voglio scoprirlo.
Meditazione Vipassana , questo vado a fare, e “vipassana” significa una cosa bella, significa “vedere le cose in profondità, come realmente sono“.
Ecco è quello che vorrei provare a fare, anche se la cosa mi spaventa.
Non sono in fuga dal mondo, né da me stessa, non sono in crisi coniugale (le nostre non sono “vacanze separate” ma “vacanze diverse” su cui poi confronteremo, arricchendoci). Semplicemente sentivo l’esigenza di fare una esperienza forte e che questo era il momento per farla.
Ho prenotato il mio posto per questo corso addirittura a marzo, quando mi trovavo in un casino totale e il frastuono delle mie classi mi faceva vedere come desiderabile il silenzio assoluto. E c’era anche la necessità di avere tempo per pensare e pensarmi, e anche, perché no, di stare senza fare niente.
Avevo poi accantonato questo mio proposito, mi ero detta tanti “ma sì, ma dai”, tutto sommato ora avevo più tempo a disposizione e tante cose da fare…
Ecco, appunto,  ero sommersa di arretrati: lavoro, poesie da valutare, recensioni da fare, libri da leggere, scarabocchi che avrei voluto fare, roba da stirare, pulizie da fare, acquisti che continuavo a rimandare.
E poi sono andata in vacanza, finalmente. Una settimana di alta montagna, belle passeggiate, panorami mozzafiato, temperatura invidiabile, belle mangiate, il relax della sauna e dell’idromassaggio, la compagnia degli amici. Nessuna preoccupazione se non quella di segnalare con una crocetta quello che volevo per cena. Tutto bello, non tutto perfetto ma una bella vacanza con qualche imprevisto.
E poi si torna a casa.
Il giorno dopo, lunedì, ho ripreso a lavorare. A un certo punto guardandomi intorno mi sono resa conto che tutto il casino era ancora lì e che il mio livello di stress, dopo solo un giorno, era lo stesso di prima di partire. Anzi si sono aggiunte altre preoccupazioni e un ansia che non mi faceva dormire. Ho capito che non avrei mai trovato il tempo per mettere ordine a casa, per leggere tutti i libri che avrei voluto leggere, vedere tutti gli amici che avrei voluto vedere…insomma per togliermi gli arretrati di una vita. E di certo non avrei potuto farlo nelle mie due residue settimane di ferie. Avrei solo accumulato frustrazioni.
Così ho deciso, nel frattempo mi è arrivata la richiesta di conferma della mia partecipazione al corso. E ho risposto. Sventurata? No, penso di no.
Ho tanti dubbi e paure, e a un giorno dalla partenza anche la forte tentazione di tornare sui miei passi. Dieci giorni senza vedere le persone che amo, senza parlare con nessuno, senza poter leggere né scrivere… solo pensare a me e alla mia vita. Sì, mi  fa paura.
Ma qualcosa dentro di me mi dice che questa strana cosa mi farà bene. E voglio provarci.
So bene che quando tornerò ci saranno ad aspettarmi delle situazioni da risolvere, quelle che congelo per dieci giorni, insieme ai panni da stirare. Ma forse avrò l’energia necessaria per affrontarli.

per chi fosse incuriosito qua ci sono alcune informazioni di base sulla tecnica di VIPASSANA

pensieriparoleopereeomissioni

Questo articolo di Concita de Gregorio dice tutto quello che avrei voluto dire io. Con lucidità e serenità fa i nomi, inchioda i responsabili, quelli che la Giustizia non ha contemplato. Certo potremmo accontentarci di una sentenza che, per la prima volta in Italia, condanna non solo gli esecutori materiali ma chi ha dato loro gli ordini. Ma non basta e non mi accontento perché quello che è successo a Genova non è solo “la più grave sospensione dei diritti umani in un paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale” come dichiarato da subito da Amnesty International, è stato anche il tentativo, in parte riuscito, di distruggere i sogni di una intera generazione. Chi pagherà per questo?

GIUSTIZIA E OMISSIONI
di Concita De Gregorio, “La Repubblica” del 7/07/2012

Troppo tardi e troppo poco. È per queste due ragioni che non si riesce a sentirsi davvero al sicuro, al riparo di una solida e limpida democrazia. È per questo che la sentenza della Cassazione sulla Diaz genera sollievo, sì, perché una pagina di verità è stata scritta e certo assai peggio sarebbe stata un’assoluzione generale. Ma non basta, non riesce a ripristinare quella forse ingenua ma formidabile e condivisa sensazione di libera cittadinanza, di fiducia nel rispetto delle regole fondamentali, di possibilità di esprimersi e di manifestare consenso o dissenso che c’era prima.

Prima di Genova, perché come le torri gemelle hanno segnato uno spartiacque per il mondo intero, il G8 ha scandito, in Europa, un prima e un dopo. Oggi la tenacia del sostituto procuratore Pietro Gaeta restituisce agli italiani una stilla di giustizia, ed è un’ottima notizia che qualcosa sia cambiato nel Paese e si possa ricominciare a farlo. Le pubbliche scuse e le pesanti meditate parole di Giorgio Manganelli, attuale capo della Polizia, fanno sperare negli uomini: perché le istituzioni sono gli uomini che le incarnano. Ciò non toglie che sia troppo tardi, e troppo poco. Undici anni sono il tempo che separa un bambino delle elementari dalla sua laurea, un esordio agonistico dal ritiro, sono il tempo di mezzo di una vita: troppi per aspettare i punti di sutura ad una ferita, quella che si vede sanguinare dalla testa di uno dei giovani della Diaz nella foto sui giornali che, identica di anno in anno, ferma il tempo da allora. Troppi per la ferita collettiva a un sentimento ormai in cancrena.

Quelli che di noi erano alla Diaz, quella notte, sanno come sono andate le cose da quell’istante esatto. Dalle 23.30 del 21 luglio 2001. Sono andate come la sentenza assai tardivamente conferma, come ricostruisce per una piccola parte degli eventi da cui restano tuttavia esclusi i mandanti. Lo sanno con la precisione di un ricordo indelebile che chi ha potuto e voluto ha certificato fin dalle cronache del giorno dopo, nelle testimonianze ostinate e reiterate in tribunale, in ogni occasione pubblica e privata. Non ci volevano undici anni per dire che stavano tutti dormendo, nella scuola, che le luci erano spente quando sono arrivati i mezzi della Polizia e a centinaia i caschi blu. Che i vetri sono stati rotti dall’esterno verso l’interno, i cocci delle finestre erano tutti dentro, non uno in cortile. Che l’irruzione è stata comandata a freddo, che chi dormiva si è svegliato e ha cercato di salvarsi correndo su per le scale ma molti sono rimasti dov’erano, invece, perché non capivano e non sapevano cosa dovessero temere, e sui loro sacchi a pelo sono stati massacrati. Che non c’erano passamontagna di black bloc in quella scuola, nulla è stato portato via quella notte che non fossero persone in barella.

Lo sappiamo da quell’istante perché lo abbiamo visto accadere minuto per minuto, abbiamo visto le luci accendersi dopo l’irruzione e sentito le urla salire lungo i piani, perché siamo entrati nella scuola subito dopo e a terra c’erano libri, diari, documenti, mutande, una bibbia in corridoio, una scatola di tampax per le scale, una copia del Don Chisciotte strappata, sangue dappertutto. Sangue sui registri della scuola, sulle maniglie antipanico delle porte, sui banchi, tantissimo sangue nei bagni. E quella scritta, comparsa subito, pennarello su foglio bianco, in inglese: non lavate questo sangue.

Abbiamo visto in quel cortile, quella notte, il responsabile delle relazioni esterne della Polizia di Stato Roberto Sgalla, braccio destro di De Gennaro allora capo della Polizia, parlare al telefono cellulare fino ad operazioni concluse, per così dire. Fino a che il novantatreesimo corpo è stato portato via in barella. E abbiamo sentito il questore di Genova Colucci dire, poche ore dopo, che Sgalla era stato mandato alla Diaz da De Gennaro stesso, in quelle ore assente da Genova. Salvo ritrattare anni dopo, a processo, e modificare la versione: a convocare Sgalla, ha messo a verbale Colucci, sono stato io.

Da questa nuova versione è scaturita la sentenza che certifica l’estraneità di De Gennaro ai fatti. Non fu il capo della Polizia, dunque, a disporre “la macelleria messicana” della Diaz — dice quella sentenza — né furono gli esponenti politici del centrodestra al governo presenti in massa durante le operazioni, nessuno dei quali ha mai pronunciato una sola parola di autocritica, di giustificazione, di spiegazione. Se ne deduce che gli alti dirigenti di Polizia ora sospesi dalle pubbliche funzioni, molti dei quali nel frattempo promossi a più alti incarichi e infine, undici anni dopo, condannati, abbiano agito quella sera di loro iniziativa: che abbiano disposto a freddo la mattanza senza essere stati da alcuno autorizzati a farlo. Così, una loro idea.

Ricordiamo a chi avrebbero potuto chiedere un parere, proprio lì sul posto e sul momento, se ne avessero avvertita l’esigenza. A Gianfranco Fini, allora vicepresidente del Consiglio e in quei giorni prima in visita alla sala operativa della questura poi, il sabato della morte di Carlo Giuliani, chiuso nella caserma di San Giuliano. A Claudio Scajola, allora ministro dell’Interno ma fin da allora evidentemente inconsapevole. A Filippo Ascierto, ex carabiniere e responsabile Difesa di An, in quei giorni a capo di una delegazione di parlamentari costantemente presente negli uffici di pubblica sicurezza: tra la sala operativa e il comando provinciale dell’Arma alla vigilia dell’assalto alla Diaz transitarono con Ascierto Giorgio Bornacin, An, eletto a Genova, Federico Bricolo, Lega, Ciro Alfano, Biancofiore, e Giuseppe Cossiga, eletto con Forza Italia. Fu suo padre Francesco qualche settimana dopo a pronunciare al Senato il celebre discorso in favore di Scajola, alla vigilia del voto che rinnovava al ministro la fiducia del Parlamento.

In assenza dell’accertamento di una responsabilità politica e/o gerarchica le condanne di Gratteri, Luperi, Calderozzi e dei loro colleghi nulla dicono su quale sia stata la catena di comando che ha disposto il massacro della Diaz e qualche giorno dopo quello di Bolzaneto, carcere dove i reclusi venivano picchiati in cella al suono di Faccetta nera nei telefoni cellulari, suoneria del resto in voga ancora oggi negli uffici pubblici delle principali municipalizzate romane, chissà se è al corrente Alemanno. Giova infine ricordare, per quanto ovvio, che a Genova era naturalmente presente Silvio Berlusconi, allora e per molto tempo ancora presidente del Consiglio. Della morte di Carlo Giuliani disse, quel pomeriggio: “Un inconveniente”.

Bene dunque che il clima sia cambiato, che si possa oggi salutare una pagina di verità con una consapevolezza collettiva che certo ci arriva anche dalle tragedie di Cucchi e Aldrovandi, chè il pericolo del sopruso vestito da istituzione è sempre in agguato. Bene le scuse, peccato per le omissioni. Resta ancora da scrivere, imminente, la sentenza per dieci manifestanti accusati di “devastazione e saccheggio”, termini adatti ad una guerra benché di guerre tra eserciti non si sia vista traccia, a Genova. Le guerre si combattono tra schieramenti avversi e in armi, non le combattono i cittadini che manifestano contro coloro che sono chiamati a garantire la sicurezza di tutti, anche la loro.
Per quei dieci manifestanti sono stati chiesti 100 anni di carcere. Anche dall’esito di quella sentenza dipenderà la possibilità che la ferita del G8 possa cominciare, con così grave ritardo e tante amputazioni, a chiudersi.

Lettera ai miei alunni/6

Siamo arrivati alla fine del nostro percorso e non vi ho ancora detto in che cosa ho mancato e perché vi chiedo scusa.
Non ci rimane molto tempo, la scuola praticamente finisce dopodomani per me e come ben sapete, l’incubo di ogni compito in classe è la conclusione, soprattutto se deve essere “personale”.
E invece io ricorro alle parole di Carla Melazzini e al libro meraviglioso che mi ha fatto compagnia nei miei viaggi verso di voi. Un libro che dovrebbe essere reso obbligatorio per tutti gli insegnanti. Insegnare al principe di Danimarca (anche se il titolo un po’ allontana) è un libro bellissimo, poetico, autentico, ricco di spunti (la mia copia è tutta strasottolineata).

Potrei riportarne interi capitoli e mi piacerebbe commentarli con quelli di voi più maturi insieme a qualche insegnante. Utopia. Però c’è una parte che è utile al mio discorso e mi aiuta a scrivere la conclusione di questa lettera.
Scrive la Melazzini che per fare di una relazione una “buona relazione” occorrono almeno tre elementi: Tempo, Indipendenza, Reciprocità.
Per costruire buone relazioni ci vuole molto tempo
, anche perché bisogna riparare dei danni e si sa che se a distruggere ci vuole un secondo, a ricostruire e riparare ci vogliono anni. Pensiamo, per esempio, al terremoto di cui in questi giorni sperimentiamo la portata devastatrice.
Noi di tempo ne abbiamo avuto tanto sulla carta, 320 ore, eppure non è stato sufficiente. Ci vuole tanto tempo per conoscersi, per misurarsi e solo dopo si può cominciare a costruire. Ecco ora, a maggio, io vi conosco sufficientemente bene per poter cominciare a instaurare con voi una relazione proficua per me e per voi. Ma il nostro tempo è scaduto. Certo ne abbiamo sprecato tanto, anche questo è vero. Non è una questione di ore ma di qualità del tempo. Il tempo sprecato a verificare la disponibilità del laboratorio di informatica, dell’aula magna, il tempo sprecato a ripetere la stessa cosa 10 volte, il tempo sprecato ad arrabbiarmi, a sedare le liti non solo verbali, a difendere i più deboli dai soprusi, il tempo sprecato in viaggio. Il tempo sprecato dalle vostre protesi: quei telefonini a cui ricorrete quando non sapete cosa dire, cosa fare, dove guardare. Per sfida o per noia. Quanto tempo sprecato. Avrei potuto provare a raccontarvi chissà quali altre storie, avremmo potuto conoscerci meglio.Ma comunque anche questo spreco è fisiologico e va sempre messo in conto in ogni relazione. L’importante è usare bene quello che ci rimane. Io ci ho provato, ma ho la consapevolezza che avrei potuto dedicarvi di più del mio tempo mentale. Ma quando arrivavo a casa nel tardo pomeriggio, dopo una mattinata di combattimento e tre ore di viaggio, non avevo molta voglia di dedicarmi ancora a voi, a cercare nuovi modi per stimolarvi.
Non che non l’abbia fatto. Abbiamo riscritto la favola di Esopo in chiave moderna e poi nel vostro dialetto. Ve lo ricordate? L’abbiamo fatto all’inizio. Vi ho fatto scoprire Tommaso Fiore, questo emerito sconosciuto a cui è dedicata la vostra scuola, vi ho fatto scoprire Tim Burton e visto insieme i suoi film più belli, abbiamo letto Jimmy della collina, un romanzo per ragazzi e vi è pure piaciuto. Ne abbiamo parlato tanto, sviscerandolo in ogni aspetto. Dovreste conoscerlo a memoria. E lo so che vi avevo promesso che avremmo visto il film alla fine ma, ho cercato di spiegarlo a quelli di voi più maturi, dopo averlo visto a casa (di solito me li guardo i film prima di proporveli) ho capito che era impossibile farvelo vedere. Passi per le scene di sesso, ma il nudo integrale maschile proprio non potevo proporvelo. Mi è dispiaciuto perché sarebbe stato interessante portarvi a fare un confronto tra scrittura e visione, m anon potevo rischiare una denuncia.
Vi ho proposto brani e poesie che normalmente non entrano nei programmi scolastici. Abbiamo visto il film La scuola è finita e riflettuto insieme su cosa significa la scuola per noi. Abbiamo creato insieme gli haiku e poi abbiamo sperimentato il caviardage. E vi ricordate quando abbiamo messo in scena il matrimonio a sorpresa di Renzo e Lucia? Mi sono messa a disposizione per prepararvi ai compiti in classe e alle interrogazioni. Sì, di cose ne abbiamo fatte, vi ho fatto giocare e soprattutto mi sono messa in gioco, eppure ho la sensazione che avrei dovuto dedicarvi più tempo. Qualitativamente parlando.

Una relazione che crea dipendenza non è una buona relazione – scrive ancora la Melazzini. Questo vale nei rapporti di coppia, nell’amicizia, vale con le cose (il cellulare, la sigaretta, gli spinelli). Vale a maggior ragione nella relazione docente-alunno, dove io docente insegno perché tu possa diventare consapevole e autonomo. C’è stato questo nella nostra relazione? Non lo so. Ho provato a farvi capire che studiare, imparare a stare con gli altri, imparare a gestire le difficoltà è nel vostro interesse, e che questo vale indipendentemente dal docente che vi trovate di fronte. Ho provato anche  a farvi capire che ci sono diversi contesti e diversi modi di comportarsi per cui a scuola ci si comporta in un modo e a casa e per strada in un altro. E questo non significa affatto essere falsi, ma essere consapevoli. Ai compagni ci si rivolge in un modo, ai docenti in un altro. Ma si rimane se stessi. Che quella su Facebook è una vicevita (parafrasando Magrelli) ed è invece la vostra vita vera che dovete riempire di relazioni autentiche. Ho provato a incoraggiarvi, a dirvi che ce la potete fare se lo volete. Ma credo di aver raccolto pochi risultati sotto questo aspetto. Non sono nemmeno riuscita a farvi capire l’importanza di firmare prima con il nome e poi con il cognome, primo segno di una indipendenza dalla propria famiglia per affermare se stessi. Eppure ve l’ho ripetuto ogni giorno!

Altra caratteristica irrinunciabile in una relazione è la reciprocità. Questa è ancora più difficile anche perché, dice la Melazzini, la reciprocità va esplicitata.
Se non è reciproca una relazione non è “buona”
e reciproco vuol dire che io cresco se tu cresci.
“Qualunque relazione insegnante-alunno in cui l’insegnante non sia disposto ad accettare che lui impara dall’alunno quanto e forse più di quanto l’alunno non impari da lui, non è una buona relazione. In una relazione buona si cresce anche in termini di arricchimento emotivo. E tutto questo va esplicitato perché l’altro contraente del patto deve essere consapevole di quanto lui ti sta dando in questa relazione”.

Questa reciprocità c’è stata, io sono consapevole di quello che ho imparato da voi, soprattutto in termini di “arricchimento emotivo”, non sono però sicura di averlo esplicitato. Di avervi incoraggiato sufficientemente, di avervi mostrato gratitudine pure per quel poco di attenzione che mi davate e che mi gratificava. Certo non stiamo parlando di un contesto dove esplicitare sia facile. Voi non avete consapevolezza delle vostre emozioni, siete, come tutti gli adolescenti del mondo, pura emozione, ma emozione scomposta e incosciente. Emozione labile, evanescente. Emozione senza attenzione. Mi sarebbe piaciuto insegnarvi a essere consapevoli delle vostre emozioni per imparare a gestirle e soprattutto a non farle colonizzare dal mondo adulto per il quale voi siete solo un target. Il più ambito. Proprio perché le emozioni possono essere trasformate in impulsi ad acquistare.
È stato davvero poco il tempo perché potessimo anche solo provare ad affrontare questo argomento e vi lascio quindi vulnerabili così come vi ho incontrato.
Per questo vi chiedo scusa, a nome mio e di tutta la società degli adulti.